Nella primavera del 2006 gli elettori italiani diedero una maggioranza, pur sottile al Senato, al centro sinistra di Romano Prodi. In breve fu smarrita la rotta, il paese tornò alle urne nel 2008 e stavolta il consenso in parlamento fu solido per Silvio Berlusconi. Dopo qualche chiacchiera di dialogo tra Partito democratico e Pdl sulle riforme, l'insuccesso in Sardegna persuase alle dimissioni il segretario fondatore del Pd Veltroni e nel 2009 il premier, il Pdl e gli alleati, si trovarono padroni del ring.

E le elezioni regionali del 2010 confermavano il feeling tra Berlusconi e settori chiave del paese, mentre la Lega Nord guidata dal suo Kagemusha Umberto Bossi, indebolito ma guerriero indomito, guadagnava terreno tra i ceti moderni, perfino quelli un tempo vicini alla sinistra.
Qualcuno ha azzardato - contando sui tre anni da qui al 2013 senza confronti alle urne - il sogno di 36 mesi per avviare finalmente le riforme, economiche e istituzionale, di cui il paese ha bisogno da una generazione. Il confronto promosso a Parma da Confindustria, con le conclusioni della presidente Marcegaglia davanti al premier Berlusconi, poneva dati inequivocabili su un sistema Italia a rischio di gripparsi. Come dimostra l'articolo di Marco Fortis in questa pagina non c'era derby ottimisti-pessimisti: da una diversa lettura dei dati, gli studiosi concludevano che è comunque l'ora di muoversi. E martedì sul Sole 24 Ore, Guido Tabellini e Giorgio Barba Navaretti proveranno a articolare in proposta l'analisi.

Ma né l'urgenza della crisi economica, né quella istituzionale, né il miraggio dei tre anni di «pace», hanno reso stabile il nostro sistema. Altri si diletteranno a calcolare, dopo l'aspra frizione tra il premier e il presidente della Camera Gianfranco Fini, quanti seguiranno l'uno o l'altro, quanti video YouTube rappresenteranno meglio lo scontro, se il duello finirà in tregua armata, in guerriglia parlamentare o - come accennato da Bossi - perfino in un voto anticipato.

Perdersi in un gioco di personalismi «quei due non si sopportano più», come tante vecchie volpi spelate di Roma fanno, è ridicolo: Berlusconi e Fini sono veterani politici, ogni loro parola e gesto fanno parte di un complesso «body language» né più né meno di un documento, una nomina, un discorso.
E ora? Se era ingenuo aspettarsi riforme dopo la meschina campagna delle regionali, sperare adesso che leader di maggioranza e opposizione, sotto l'egida del capo dello stato, pongano mano al lavoro indispensabile sembra miraggio. Le elezioni precoci sono l'ultima scena di cui il paese ha bisogno, e a che pro del resto? Per ritrovare una maggioranza di centro destra che, perduto Casini perda anche Fini, in un distillarsi di purezze e fedeltà sempre più angosciante, che non riesce però a sostituire un disegno di governo?

L'opposizione, Bersani al centro, resta guardinga, suggerisce schieramenti, ma continua a cercare la soluzione nella somma di sigle, non nelle proposte sociali ed economiche per i ceti del Nord e del Sud, tra ricchezza e arretratezza, ostili o indifferenti alla proposta riformista. È curioso che il Pd, partito erede di Dc e Pci, resti ipnotizzato davanti ai nuovi bisogni del paese: eppure l'Aldo Moro capace con il celebre discorso di San Pellegrino di tessere tra politica e società, è padre nobile del Pd!
La Lega di Bossi può sognare un futuro inedito, il successore di Bossi come Nick Clegg a Londra, incomodo tra laburisti e conservatori, o se preferite come i democristiani Csu della Baviera, contrappeso moderato della Cdu nazionale. E sarà - anche qui - curioso che Nord d'Italia e Sud tedesco condividano un sistema gemello.

Fini sa di dover camminare su un filo sospeso nel vuoto. È un Capricorno raziocinante e non avrà vertigini: non conta affatto su questo o quel reduce del Msi-An. Scommette sulle conseguenze dell'immobilismo che ci tormenta dal 2006, sa che non basta più vincere ogni elezione, contare su un'opposizione inerte e sulla solerzia degli yesmen: il paese ha bisogno di ripartire e premia Berlusconi perché spera rimetta in moto l'economia. Giocherà dunque d'attesa: decise di far politica da ragazzo per godersi in pace il film «Berretti verdi», il Vietnam di John Wayne, ora alternerà lui tregua e guerriglia. Quanto al ministro Giulio Tremonti, bene accorto a confermare solidarietà al premier ma senza toni servili contro Fini, tanti condividono ora quel che questo giornale ha scritto quando non era troppo di moda. Trichet, Barroso, l'editore di Repubblica Carlo De Benedetti in un saggio sul Foglio di Giuliano Ferrara, riconoscono che il suo rigore è stato utile. E sentire Tremonti che ricorda alla troppo timida cancelliere Merkel che «quando la casa del vicino brucia occorre dare una mano» a proposito di Grecia fa piacere. Ma, con il governatore di Bankitalia Mario Draghi a ricordarci che «i prossimi mesi saranno decisivi», e De Benedetti che lancia la sfida al Pd su tasse, riforme ed economia, anche Tremonti sa che la guerra di posizione non gli basterà nel 2010. Se ha a cuore - e noi crediamo di sì - una nuova fase politica per il suo destino, tra non molto dovrà muoversi: e dare quella scossa che a Parma gli è stata chiesta.

Per ultimo tocca a Silvio Berlusconi. Più di una volta, meritoriamente, il suo braccio destro Gianni Letta gli ha impedito lo scatto che avrebbe bruciato i ponti. Dovrebbe temere come i peggiori nemici i sicofanti che lo assediano a ogni passo, a Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli. Un ceto politico che gli deve tutto e che in cambio non avrà mai il coraggio di dirgli la verità: «Presidente il consenso resta forte, la maggioranza degli italiani è con lei, non sarà certo un franco dibattito o un partito capace di dividersi sulle prospettive il pericolo, ma se restiamo per tre anni immobili, concentrati solo sulle rivalse interne, può darsi che non sia malissimo per lei, o per il partito o magari anche per il governo, ma sarà un disastro per il paese».

Parlando ieri a Milano in occasione del 25 aprile, commosso con il pensiero a Toscanini e Pertini, il presidente Napolitano ha chiesto ancora quello scatto di orgoglio nazionale che sarebbe indispensabile. Niente ci condanna al declino, niente ci fa presagire un esito greco. Niente però ci salverà dal perdere le posizioni di oggi, a Nord come a Sud, se impiegheremo i prossimi mesi tra velleità elettorali e manovre ciniche. Un esito che premier, governo, maggioranza e classe politica tutta devono scongiurare, se non vogliamo che la prossima generazione si ricordi della nostra con disprezzo e ilarità.

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